Elegante come un vecchio portasigarette e non più grande del palmo della mano di un bambino. È un iPod video, un oggetto che rappresenta la frontiera di una nuova era digitale, un nuovo lettore video, un'idea che farà piazza pulita di tutti i vecchi schemi. L'anno scorso, tra la primavera e l'estate, sono andato a trovare alcuni manager ed esperti di tecnologia dei grandi studios di Hollywood. Non facevano che parlare male delle sale cinematografiche nei centri commerciali e dei multisala in genere, cioè di quei cinema in cui la maggior parte degli americani va a vedere i film. E avevano un nuovo chiodo fisso: “Film on demand: quando li volete, dove li volete e come li volete”. Alla fine dell'estate, i film hanno cominciato a inondare le case e i lettori portatili arrivando direttamente da internet. A settembre la Apple ha cominciato a vendere i vecchi film della Disney sul suo iTunes store. Ho scaricato La maledizione della prima luna e poi l'ho messo sull' iPod video. Lo schermo era largo solo 5 centimetri.
Se si sta seduti, il posto più naturale per tenere l' iPod è sulle gambe, così non si stancano le braccia. A quella distanza, però, non riuscivo a mettere a fuoco l'immagine. Allora ho poggiato l' iPod sulla pancia. Ondeggiava su e giù al ritmo di ogni respiro. Ero a bordo del galeone Black Pearl e come un marinaio ubriaco me ne stavo sul ponte solcando i mari impetuosi. La linea dell'orizzonte continuava a salire e a scendere, e io avevo grossi problemi a vedere qualcosa. La maledizione ha grandi paesaggi e scene tumultuose: un oceano sconfinato sovrastato da un sole abbagliante, saccheggi notturni di città coloniali, prostitute con grandi scollature e ubriaconi senza denti. Ma io riuscivo a vedere solo una specie di barca grande come uno stuzzicadenti, delle macchie di un blu brillante e l'immagine di un teschio che appariva ogni tanto.
Al cinema ci sottomettiamo allo schermo, vogliamo esserne dominati senza dover faticare per vederlo bene. Naturalmente nessuno è obbligato a guardare un film su uno schermo microscopico: a casa la maggior parte degli adulti scarica i film sul computer o li trasferisce su una tv con schermo piatto. Nonostante questo, gli iPod video e gli altri lettori tascabili sono venduti proprio per vedere i film, e certamente i ragazzini li useranno per questo. Secondo alcuni specialisti dell'intrattenimento di Hollywood, oggi per molti ragazzi guardare un film su uno schermo piccolo o su un grande schermo non fa differenza: sono “agnostici”.
I film venduti dalla Apple e da altri sono le prime gocce di un'inondazione. Presto nuovi film scorreranno liberamente dal web e da operatori via cavo, e la gente li guarderà su schermi di tutte le misure. Per tutti quelli che non si sentono “agnostici” ma credono fermamente nell'esperienza cinematografica, è un cambiamento importante.
Si parla da anni di distribuzione cinematografica via internet, ma negli ultimi mesi, visti i guai finanziari di Hollywood, se ne parla in modo più insistente. L'estate scorsa gli studios vivevano un momento di evidente difficoltà, qualcuno parlava addirittura di “panico”. Sono state licenziate centinaia di persone, sono stati fatti alcuni tentativi di arginare i compensi delle star e i budget di produzione, bloccando, per esempio, commedie con attori come Jim Carey e Ben Stiller, che sarebbero costate più di cento milioni di dollari. Tra poco, con gli sceneggiatori, i registi e gli attori che cercheranno di ottenere una percentuale più alta dei ricavi provenienti da internet, è facile prevedere che ci saranno duri scontri tra le categorie.
La causa di questi problemi economici è misteriosa: dopo una flessione nel 2005, i botteghini sembravano di nuovo in buona salute, e lo sembrano ancora. Ma gli introiti che derivano dalle sale sono appena il 20 per cento dei ricavi di un film. Nonostante il risalto che la tv e i giornali danno alle classifiche, in realtà le sale portano molti meno soldi rispetto ad altre fonti – tv in chiaro, via cavo, pay per view, noleggio e vendita dei dvd – che costituiscono la metà del totale dei ricavi di un film. Questo non significa che i cinema siano finanziariamente inutili: in generale, maggiore è il successo di un film in sala e maggiore sarà il ritorno economico dagli altri mercati. Ecco perché gli studios fanno ancora a gara per vincere il titolo di campione d'incassi del weekend.
In parole povere, i cinema sono diventati un mezzo per fare pubblicità ai dvd. Nell'agosto del 2006 – scaduto il contratto tra Tom Cruise e la Paramount Pictures, la divisione cinematografica della Viacom – il presidente della Viacom, Sumner Redstone, protestò con Cruise affermando che il suo comportamento pubblico aveva compromesso il successo di Mission: impossible III. In realtà il punto era un altro: la Paramount aveva capito che, tolti i costi di produzione e promozione e la parte destinata alle sale, il film non avrebbe fatto molti soldi. Anzi, forse non ne avrebbe fatti per niente. Cruise invece intascava comunque settanta milioni di dollari grazie a un accordo che gli garantiva un'enorme percentuale sui ricavi delle vendite del dvd.
Il flop di M:i III è arrivato in un momento difficile per gli studios. Dopo anni di crescita a due cifre, le vendite dei dvd – sebbene ancora buone – si sono fermate e hanno smesso di compensare le perdite dei botteghini. Inoltre nessuno sa se la tecnologia che potrebbe rianimare le vendite riuscirà a decollare veramente. Un dirigente riassume così la sensazione di panico che c'è a Hollywood: “Finché i ricavi complessivi crescevano, a tutti andava benissimo che i costi salissero. Ma se i ricavi si fermano, l'industria del cinema potrebbe entrare in una spirale micidiale”.
Che possono fare gli studios? Possono tagliare i costi di produzione e quelli di distribuzione. Chiuse nelle loro pizze di metallo, le pellicole pesano tra i venticinque e i quaranta chili. Devono essere trasportate in aereo in ogni città e poi consegnate, con un furgone, alle sale. Se un film va male le sale devono aspettare che ne arrivi un altro a sostituirlo. Ma quando i cinema si convertiranno alla proiezione digitale – processo che è appena agli inizi – gli studios potranno trasmettere i film via satellite o consegnarli su dischi rigidi portatili. Ho parlato con Barry Meyer, presidente e amministratore delegato della Warner Bros Entertainment, in una sala conferenze vicino al suo ufficio nel mitico quartier generale della Warner a Burbank, in California. “La distribuzione digitale è semplice, arriva ovunque e costa poco”, mi ha spiegato. Poi ha fatto un respiro profondo: “O ci adattiamo o diventeremo dei dinosauri”.
I sette studios principali, con le loro varie divisioni, producono o distribuiscono la maggior parte del “contenuto” statunitense che viene consumato nel mondo. Devono continuare a girare i film su pellicola o passare al digitale? La nuova tecnologia apre enormi possibilità ai registi e ai gestori delle sale, ma comporta anche una trasformazione radicale del modo di guardare un fìlm. Ogni tipo di schermo ha la sua estetica e impone una particolare esperienza sociale al pubblico. Abbiamo visto centinaia di film sui vecchi televisori e ci piacevano moltissimo, ma guardare Quarto potere in tv è una promessa mantenuta solo a metà, mentre vederlo sul grande schermo è una rivelazione. Se guardare un film a casa diventa un'alternativa e non un extra rispetto alla sala cinematografica, significa che una forma di arte visiva sta finendo, trasformandosi in qualcos'altro.
I ragazzi che vengono spinti a guardare i film su un lettore portatile si dovranno accontentare di un'esperienza incompleta, anche se non lo hanno mai saputo e mai lo sapranno. E la loro scelta di consumo potrà influire su tutti gli altri, proprio com'è successo nel business della musica. Insomma, il futuro del cinema come forma d'arte è in pericolo.
Prendiamo i cinema dei centri commerciali o i multisala. Il disprezzo dei manager di Hollywood per queste sale è aumentato a dismisura. Se la prendono con il purgatorio che precede ogni film, fatto di oltre mezz'ora di pubblicità, trailer, annunci, spot e messaggi più o meno subliminali di locali notturni o pasticcerie ucraine: qualsiasi cosa pur di ritardare il fìlm e costringervi a tornare al bar, dove le sale fanno il 40 per cento dei loro guadagni. E spesso il proiettore si fulmina, lo schermo è ingiallito e il pavimento è appiccicoso.
Ma se siamo davvero determinati a vedere un film, siamo anche disposti a sopportare ogni cosa e, quando finalmente tutti hanno preso posto in sala, riusciamo anche a goderci lo spettacolo. Ma si va avanti in mezzo a mormorii e proteste, tanto più forti quanto più sono vecchie le strutture dei cinema.
Molte sale sono state costruite frettolosamente e con pochi soldi dopo Guerre stellari. George Lucas aveva dimostrato che un fìlm commerciale sostenuto da una forte campagna pubblicitaria in tv poteva uscire simultaneamente in tutto il paese e attirare enormi folle di spettatori nel primo weekend. Questi cinema, invecchiando, non perdono la doratura delle loro eleganti colonne, ma marciscono come spazi industriali in disuso. Sono le rovine di quella che sembra essere una cultura che sta morendo lentamente.
I direttori e i responsabili di produzione degli studios hanno un grande potere a Hollywood. Ma all'interno dei giganteschi gruppi industriali di cui le divisioni cinematografiche rappresentano una piccola parte, sono solo dei manager di alto livello. Il loro lavoro, in parole povere, consiste nel far arrivare denaro in cassa e nel tenere alto il livello delle quotazioni in borsa della casa madre. Lavorano sempre sotto pressione. Ho detto scherzando a Michael Lynton, presidente e amministratore della Sony Pictures Entertainment, che nessun attore o regista ha mai ricevuto una telefonata del genere: “Devo vedere gli analisti di borsa tra tre settimane: quali sono le previsioni per il terzo quadrimestre?” Ma Lynton mi ha risposto: “Veramente io quelle telefonate le ricevo”. Per fare quadrare i conti, i dirigenti pensano buona parte dei fìlm solo per il pubblico del weekend, cioè famiglie o ragazzi tra i 12 e i 25 anni. Per questo oggi il contenuto delle pellicole delle grandi major ci sembra infantile e ripetitivo: film di fantascienza, cartoni animati, edificanti storie sportive o commedie demenziali.
Ma non bisogna lasciare che il rimpianto per come vanno le cose oggi si trasformi in uno sguardo melenso su un passato nobile che non è mai esistito. La produzione dei grandi studios è sempre stata un'enorme macchina per fare soldi. Secondo la rivista Forbes, il film più costoso della storia è Cleopatra, del 1963: la Twentieth Century Fox spese allora poco meno di 300 milioni di dollari d'oggi. E non è neanche vero che ci fu un'epoca d'oro in cui dalle case di produzione uscivano solo arte e intrattenimento di qualità. Da sempre la maggior parte dei film prodotti è robaccia. Del 1953 ci ricordiamo Da qui all'eternità e forse il Grande caldo, ma certo non La rossa del Wyoming o Guerrilla girl.
Ma anche se non è mai esistita un'epoca d'oro, ci sono state in passato alcune strutture che hanno incoraggiato la produzione di capolavori, o almeno che non l'hanno attivamente scoraggiata: per esempio il sistema a contratto, adottato dagli studios negli anni trenta e quaranta, che scritturava un attore in esclusiva. Grazie a questo sistema il produttore Hal B. Wallis della Warner Bros fu in grado di mettere insieme per Casablanca attori, sceneggiatori, scenografi e un regista che si potevano incontrare tutti a pranzo nella mensa della Warner. Il sistema a contratto (che molti attori odiavano, anche se spesso fece un buon uso del loro talento) alimentava i generi codificati – sentimentali, western, commedie sofisticate, adattamenti letterari in costume, thriller, drammi psicologici e tutte le variazioni del noir – in cui si divideva la maggior parte dei film.
Negli anni cinquanta, in un periodo in cui il controllo degli studios si era allentato, si sviluppò un'altra struttura produttiva, grazie a cui registi come Nicholas Ray, Anthony Mann e Douglas Sirk realizzarono lavori decisamente impegnativi. Nei primi anni settanta s'impose invece il modello produttivo che rafforzava il controllo da parte del regista. I produttori, presi in contropiede dai gusti delle nuove generazioni, si rivolsero a giovani diplomati delle scuole di cinema come Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Steven Spielberg e Robert Altman (che era però di una generazione più vecchio). Lavorando in piena libertà, questi registi tirarono fuori una serie di film eccezionali con protagonisti dal carattere sfaccettato e dalle fisionomie sorprendentemente originali. Il sistema attuale dei grandi studios, invece, non solo svilisce l'aspetto artistico, ma è anche irrazionale dal punto di vista finanziario.
L'abitudine a certe cifre non le rende meno impressionanti. Il costo medio di un film di una major è di sessanta milioni di dollari; il costo medio per il marketing interno, cioè solo negli Stati Uniti, è di circa trentasei milioni. I potenziali blockbuster come King Kong o II codice da Vinci, che debuttano simultaneamente in tutto il mondo, costano intorno ai trecento milioni. Tutti i film delle grandi case cinematografiche sono una scommessa. Il successo al botteghino di M:i III e Superman returns (che hanno incassato circa quattrocento milioni ciascuno) non basta a garantire un margine di profitto, anche se dai conti finali manca ancora parte delle entrate provenienti dai mercati correlati. Perfino i 550 milioni incassati da King Kong sono stati una delusione.
Qual è allora un incasso soddisfacente? La risposta è nella pubblicità del secondo film della serie dei Pirati, pubblicata su Variety: un teschio con le ossa incrociate sovrasta un numero 1 seguito da nove zeri. Quella testa di morto miliardaria, spingendo gli studios in una nuova avventura dai budget folli, potrebbe danneggiare il business cinematografico per anni. Tutti vorrebbero fare il colpo grosso con i diritti d'autore. Nonostante gli insuccessi e i film che riescono appena a rientrare delle spese, giocare d'azzardo è sempre stato parte dell'emozione di lavorare a Hollywood. E certo alcuni giocatori sono più bravi di altri.
Ripescare James Bond grazie a un nuovo sex symbol dall'aria ironica e intelligente va bene. Ma Superman returns, con la sua sceneggiatura appena abbozzata e un eroe scialbo, non è solo noioso: è inutile. Nell'era digitale che, dopo il Superman del 1978, ha già visto cinque Batman, due Spiderman e tre X-Men, il crociato volante ha decisamente perso la sua magia. Eppure la Warner, alla fine di ottobre, ha annunciato che farà un altro film su Superman. Variety, già tempo prima, aveva riassunto così la questione: “La Warner Bros ha investito troppo tempo e denaro e non può più mollare. Ma soprattutto il film serve ad alimentare un gran numero di investimenti della Time Warner: homevideo, introiti correlati e merchandising”.
Ecco quindi come vanno le cose: la casa cinematografica, costretta ad alimentare le sue aziende collegato e sussidiarie, viene inghiottita da questo modello di business, ma non riesce a evitare un fiasco annunciato. Gli studios stanno cercando di mettere un limite ai budget, ma contemporaneamente Paramount, Disney, Fox e Mgm – uno studio moribondo in cerca di rilancio – stanno saccheggiando biblioteche e raccolte di fumetti e di classici della letteratura infantile a caccia di titoli da trasformare in opere spettacolari. Questi film, che faranno girare miliardi di dollari, non sono necessariamente quelli che il pubblico vuole vedere, ma sono quelli che il gruppo industriale crede di poter vendere.
Il direttore di Variety, Peter Brat, che negli anni settanta era un dirigente alla Paramount, la pensa così: “Alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta gli studios guardavano i risultati del botteghino e dicevano: "Al pubblico piacciono Midnight cowboy e II laureato". Oggi gli industriali del cinema dicono: "Possiamo dire noi al pubblico cosa vuoi vedere"”. Ma per quanto? I teenager si fanno i loro film da soli e li mettono su YouTube e su MySpace. Hanno una dimensione multitasking del divertimento, con videogiochi, chat e tv. Forse non hanno nessuna voglia di starsene seduti per due ore in una sala buia e sottostare al controllo di qualcun altro.
Ci sono, ovviamente, altri tipi di film oltre ai mostri da botteghino e alle commediole per liceali. Alla Warner Bros va riconosciuto il merito di aver fatto uscire un film come Syriana nel 2005 e Blood Diamond e Intrigo a Berlino quest'anno, tre film che potrebbero essere definiti gli ambiziosi discendenti di Casablanca. Ma l'ago della bilancia ormai si è spostato da più di vent'anni.
Quando il pubblico mostra di gradire un film dal budget medio-basso – diciamo Crash o Inside man - gli studios considerano quel successo un'anomalia, un “evento irripetibile”. Nel gergo dell'ambiente, questi sono film “qualità-dipendenti” (devono essere fatti bene per piacere), piuttosto che “pubblico-dipendenti” (tutti lo vanno a vedere a prescindere dalla qualità). Alcuni film “qualità-dipendenti”, come Inside man, II diavolo veste Prada e Sideways, sono successi sotto tutti gli aspetti. Altri – come II calamaro e la balena e Capote - non hanno fatto molti soldi ma sono considerati successi in rapporto a quanto sono costati. Altri ancora, come Little children, sono disastri finanziari. La maggior parte della gente va a vedere i film brutti invece di quelli belli, ma i film piccoli e belli che hanno successo, come I segreti di Brokeback Mountain e Borat sono – in relazione ai loro costi – tra i film di maggior successo mai realizzati.
Per ripetere degli “eventi irripetibili” serve intelligenza. Gli elementi delle trame più popolari possono essere codificati dal computer e riorganizzati in sceneggiature prefabbricate, ma niente può sostituire l'istinto, il gusto e il coraggio; per non parlare della recitazione, della regia e della fotografia. Quale computer avrebbe potuto sintetizzare Borat?
Brokeback è stato realizzato dalla specialty division della Universal, la Focus Features, guidata dallo sceneggiatore e produttore James Schamus, che lavora in un loft in un vecchio edificio di Bleecker Street, a New York, con i soffitti alti, il parquet e i tubi dell'impianto di aerazione elegantemente a vista e dipinti di bianco. Oggi, quando si parla di cinema raffinato (e che vada oltre i confini del cinema indipendente), si parla delle specialty division delle major. Schamus, un uomo piccolo che parla molto velocemente, è un collaboratore di vecchia data di Ang Lee; ha fatto da produttore e sceneggiatore in Tempesta di ghiaccio, La tigre e il dragone e altri film. Negli ultimi anni la Focus ha fatto il grande salto. Tra le sue uscite più recenti ci sono Se mi lasci ti cancello, I diari della motocicletta, The constant gardener, Brick e Orgoglio e pregiudizio. Per realizzare questi film Schamus, come gli altri piccoli mogul delle specialty division, fa molta attenzione ai conti. “Faccio tanti brutti fìlm quanto una major”, confessa allegramente. “Ma quando loro fanno un brutto film spendono tra i quaranta e i sessanta milioni di dollari e se ne vantano. Quando ne faccio uno brutto io, viene applaudito a un festival”.
Le specialty division - come Fox Searchlight, Sony Pictures Classics, Paramount Vantage, Miramax e Warner Indipendent Pictures – esistono, in una forma o in un'altra, dai primi anni novanta perché servono agli studios sotto vari punti di vista. Sono perfette come laboratorio per il tipo di fìlm che una major non può o non vuole fare; usano un modello di business parsimonioso che la grande industria non ha alcuna voglia di adottare; sono la voce della coscienza degli studios; e sempre più spesso li rappresentano agli Oscar. In cambio, quando ne hanno bisogno, le specialty division ottengono l'accesso alla promozione e alla distribuzione delle case madri. Anche se il più delle volte preferiscono viaggiare da sole. Di fatto, hanno adottato il modello di business (e molti artisti) della scena indipendente. Il meccanismo funziona così: spendi tra i cinque e i venti milioni di dollari in produzione; dedichi la maggior parte dei tuoi film a trame sperimentali che ruotano intorno ai personaggi; e infine usi giovani attori di talento o star famose che sono disposte a guadagnare poco, come Nicole Kidman e George Clooney.
Il corrispettivo di Schamus alla Fox Searchlight è Peter Rice. Il suo ufficio non si trova nel confortevole quartier generale della Fox's Century, ma in un piccolo edificio che si affaccia su un parcheggio. Dopo il trionfo di Sideways e Napoleon Dynamite nel 2004, la Searchlight ha avuto un anno di stallo artistico e finanziario, ma è tornata nel 2006 con Thank you for smoking e Little miss Sunshine; si è anche assicurata i diritti di distribuzione per L'ultimo re di Scozia, The history boys e Diario di uno scandalo. Searchlight ha acquistato Little miss Sunshine, il suo film di maggior successo dell'anno, al Sundance film festival per dieci milioni e mezzo di dollari, lo ha fatto debuttare in sette sale a luglio e poi ha gradualmente allargato il giro, raggiungendo più di 1.600 sale all'inizio di settembre. La pellicola ha incassato più di 84 milioni di dollari in tutto il mondo.
Rice, un inglese di quarant'anni, parla con calma ma ha un modo inquietante di fissare l'interlocutore. “Oggi c'è una scelta illimitata di film”, mi dice parlando della grande quantità di piccole produzioni che spuntano come funghi. “La mediocrità viene punita severamente”.
Le specialty division hanno imparato dalle follie delle case madri e hanno fatto qualche ragionamento di marketing. Uno spot di trenta secondi per un film di cassetta su una tv nazionale può costare fino a seicentomila dollari; una pubblicità a colori su tutta una pagina del New York Times della domenica ne costa centosessantamila. I giovani, il mercato più grosso per i film di cassetta, non leggono il giornale, e hanno solo una vaga idea della tv in chiaro. Perché gli studios spendono milioni dietro a loro? Rice ragiona su una scala molto più piccola: se in un certo mercato circolano con successo due copie di un film della Searchlight come Thank you for smoking - una satira sulla lobby del fumo – vale la pena accollarsi il costo di una gigantesca pubblicità sui giornali locali, settimana dopo settimana? Le pubblicità servono a fare sapere che c'è in circolazione un dato film, ma non necessariamente convincono la gente ad andarlo a vedere.
“Non hai bisogno che 1'80 per cento del pubblico sappia che il tuo film è nelle sale”, sostiene Rice, “hai bisogno che lo sappia il 100 per cento delle persone per cui quel film è stato realizzato. Se riusciamo a raggiungere quella fetta di pubblico, possiamo rendere redditizio questo tipo di cinema”. I capi delle specialty division hanno fatto proprie le tecniche del marketing di nicchia, scovando le fasce di pubblico interessate ai loro film e raggiungendone almeno una parte attraverso i siti web. Nella visione generale degli studios il pubblico si divide in quattro quadranti: giovani uomini, giovani donne, uomini adulti e donne adulte. Per promuovere Brokeback, per esempio, Schamus e i suoi uomini del marketing hanno intervistato alcune donne che facevano volontariato una volta alla settimana per capire quali siti web visitassero. Queste donne adulte avevano probabilmente una natura attenta agli altri e quindi – così hanno pensato – erano potenziali spettatrici del fìlm. La pubblicità del fìlm è stata dunque programmata proprio sui loro siti preferiti.
Brokeback è costato quattordici milioni di dollari e ne ha incassati centottanta. Eppure la strategia di marketing di Schamus mi lascia un po' perplesso. Forse Brokeback, a causa del suo tema “proibito”, aveva bisogno di essere venduto in modo particolare, ma anche The constant gardener, che non infrangeva alcun tabù, è stato pubblicizzato con tecniche da marketing di nicchia, attraverso i blog politici. Siamo fortunati ad avere film così, ma le congetture sul tipo di pubblico a cui questi fìlm dovrebbero piacere sono un po' avvilenti. Una volta, artisti commercialmente di successo come Alfred Hitchcock, George Cukor, John Ford e Billy Wilder sarebbero rimasti allibiti se qualcuno gli avesse detto che potevano piacere solo a certe fasce di pubblico. Loro pensavano di lavorare per tutti e spesso ci riuscivano. Oggi, con le poche eccezioni di Ang Lee, Scorsese, Spielberg e Eastwood (e non con tutti i loro fìlm), è raro trovare un regista artisticamente ambizioso che abbia un appeal universale, o almeno ampio. La ragione può essere, in parte, legata al fatto che i registi lavorano per un pubblico molto più diversificato di quello di cinquanta o sessant'anni fa. Ma la verità è che frazionando il pubblico in amanti delle commedie, orde del weekend ed élite cittadina, gli studios hanno rinunciato al vecchio sogno del cinema come forma d'arte per tutti.
Tra quattro o cinque anni in ogni casa ci sarà una scatola collegata a internet. Raccoglierà musica, spettacoli tv e fìlm. Ognuno potrà farsi un dvd e vederlo dove vuole. Forse ci sarà un sistema senza fili per trasmettere direttamente sul televisore. I bambini trasferiranno i film su un lettore portatile per rintanarsi da qualche parte, senza fratelli, sorelle e genitori; o se ne porteranno una copia a casa degli amichetti. I genitori guarderanno la maggior parte dei film in casa, su schermi sempre più grandi. La qualità dei dvd sarà sempre migliore di quella dei film scaricati – soprattutto con i lettori ad alta definizione – quindi i dvd, anche se venderanno di meno, non spariranno mai del tutto.
E i cinema? Negli Stati Uniti ci sono 38mila schermi sparsi in seimila città. C'è davvero bisogno che ce ne siano così tanti? Ho parlato con John Fithian, il presidente dell'associazione nazionale dei gestori di sale, la lobby che difende gli interessi delle catene di cinema in parlamento. Secondo lui la chiave della sopravvivenza è digitalizzare la proiezione. “Dobbiamo competere con l'alta tecnologia dell'home entertainment e invece nelle nostre sale usiamo una tecnologia vecchia di cent'anni”, mi ha detto. “Abbiamo bisogno di modernizzare le sale esistenti e allo stesso tempo buttare giù quelle troppo vecchie”.
Solo duecento sale (circa il 5 per cento del totale degli Stati Uniti) usano già un sistema di proiezione digitale, ma secondo Fithian quattrocento schermi potrebbero convertirsi al digitale nel giro di due anni, e in cinque anni lo farà anche la maggior parte degli altri: “Tra dieci anni dubito che ci sarà ancora della pellicola in circolazione”. Sarà un cambiamento che provocherà grandi dibattiti. Spielberg e M. Night Shyamalan, per esempio, vogliono continuare a girare e a proiettare i loro film in modo tradizionale. La fortuna del digitale tra i registi dipenderà da quanto sarà in grado di migliorare le immagini. Mel Gibson l'ha adottato e ne ha fatto buon uso in Apocalypto. Non c'è dubbio, comunque, che la proiezione digitale trasformerà i multisala. Come predisse sette anni fa il critico Godfrey Cheshire, le sale proietteranno molto altro (e alcuni hanno già cominciato a farlo): programmi in alta definizione delle Olimpiadi, di manifestazioni politiche, feste religiose o concerti. Il numero degli schermi è destinato a diminuire, forse del 30-40 per cento in dieci anni. Ma i cinema, per quanto molti di loro siano polverosi e poco accoglienti, difficilmente spariranno del tutto. Anche se i manager degli studios vogliono distribuire i film via internet, sanno bene che guardare un film in sala è un'altra cosa.
Una prima al cinema rimarrà comunque un evento. Innanzitutto per la pubblicità: i quotidiani, le riviste, le conferenze stampa, i documentari “dietro le quinte” per la tv via cavo, le centinaia di recensioni e l'incessante tam tam dei blogger. Se gli studios invaderanno le case con troppi film, sarà difficile distinguerli dai programmi tv. “Non si tratterà di fare una cosa o l'altra”, sostiene il presidente della Warner, Barry Meyer. “Il digitale permette di esplorare molte strade nuove, ma per vedere un filmone pieno di effetti speciali sarà sempre meglio andare in un multisala. Gli altri film forse li vedremo su dvd, sul computer o sull' iPod. I piccoli film che oggi facciamo uscire nelle sale, tra cinque anni potremmo farli uscire direttamente per l'home video”. I grandi fìlm fanno fare talmente tanti soldi che è impossibile immaginare che gli studios smettano di girarli. Ma è una pazzia spendere quasi cento milioni di dollari per realizzare e vendere un film ordinario.
Il modello di business dei grandi studios ha la sua utilità ma è destinato ad andare in pezzi. Steven Soderbergh è un regista che ha una posizione ottimista e quasi fideistica su questa novità. Ha un business plan alternativo che ha applicato con Intrigo a Berlino. Le star di serie A (attori, registi, sceneggiatori) lavorano per compensi iniziali relativamente bassi: non le cifre dichiarate per il mercato (cinque, dieci o addirittura venti milioni di dollari), ma un compenso nominale di un milione o due. Se l'artista preferisce avere più soldi subito, rinuncerà ai bonus, per esempio a una percentuale sugli incassi.
Quando il film comincia a guadagnare, i premi sono divisi secondo proporzioni prestabilite. Alla casa cinematografica e ai suoi partner finanziari che hanno messo in piedi il budget di produzione spetta la fetta più grande, per esempio il 50-60 per cento. Una star prende il 6 per cento, un'altra star 5, lo sceneggiatore 2, e così via. Se il film è un flop, gli incassi di tv e dvd serviranno ad attutire le perdite, cosa che fanno normalmente. Se il film è un successo, tutti avranno una fetta della torta. In questo modello economico c'è un risvolto positivo anche dal punto di vista artistico che aiuta a superare la paura del rischio. “Se la spesa iniziale è contenuta”, spiega Soderbergh, “ci sono buone possibilità che in futuro gli studios facciano delle scelte più coraggiose”.
Al momento gli investimenti più intelligenti si fanno sui budget pccoli. Negli ultimi tempi i ricchi imprenditori, quelli che mettono i loro soldi nei fondi d'investimento, hanno cominciato a fare affari non con gli studios ma con i produttori di successo come Joel Silver e con i registi-produttori come Ivan Reitman. I soldi sono destinati a film di genere – thriller, commedie e horror – che rientrano nella categoria dei piccoli budget (circa venti milioni di dollari). Alcuni di questi film non saranno degli “eventi irripetibili”, ma gli investimenti iniziali relativamente piccoli permetteranno ai produttori di usare sceneggiatori e registi pronti a osare qualcosa di più, proprio come facevano sessant'anni fa i registi di serie B, faticando in silenzio e nell'ombra.
I film fatti in fretta e con pochi soldi avranno sempre bisogno dei grandi studios per la distribuzione e il marketing, ma con il digitale non sarà più così. La distribuzione è la chiave per la libertà. In futuro sarà difficile impedire a produttori, registi e sceneggiatori di liberarsi degli studios, formare delle cooperative e pagarsi una distribuzione e una promozione che faccia arrivare i film direttamente nelle sale. Ed essere finalmente liberi.
David Denby, The New Yorker, Marzo 2007