Lo spazio del montaggio, il ruolo del montatore nel montaggio del film.

“LO SPAZIO DEL MONTAGGIO, IL RUOLO DEL MONTATORE NELL'ELABORAZIONE DI UN FILM” è il titolo di un dibattito che si è svolto qualche anno fa tra alcuni montatori e registi francesi. Il documento è stato pubblicato nel sito dei nostri colleghi (http://www.monteursassocies.lautre.net/) e da noi tradotto. Ci è sembrata una discussione particolarmente interessante sul ruolo che il montatore ha nella costruzione del film, sul suo rapporto creativo con il regista. Il montatore può avere un suo stile? E' possibile riconoscere la “firma” del montatore anche su lavori di registi diversi? Queste ed altre sono le questioni a cui hanno cercato di rispondere i nostri colleghi, coadiuvati in questo dibattito da un sociologo, una psicanalista e un ricercatore.

Dopo questa prima traduzione abbiamo intenzione di proporvi altri documenti e articoli di colleghi, con la convinzione che ciò possa essere uno stimolo ulteriore al nostro dibattito.
Buona lettura.

Vsevolod Illarionovič Pudovkin

Anita Perez | montatrice

Buona sera e benvenuti a tutti. Questo dibattito si inserisce nell'ambito della Settimana del Montaggio, un'iniziativa che noi abbiamo voluto organizzare per parlare e far parlare del montaggio, del nostro mestiere. Un mestiere che noi amiamo fare. Una pratica professionale che si rinnova continuamente, che si mette in discussione ogni volta, poiché ogni film è una nuova avventura, ogni film è un “oggetto” con una sua propria specificità.

Perché questo dibattito:

  • “Lo spazio del montaggio, il ruolo del montatore nel processo di costruzione del film”?
  • Perchè il montaggio è l'ultima fase del lavoro di costruzione del film, il momento in cui il film si “definisce” così come sarà visto dagli spettatori.
  • Durante le riprese il regista è accompagnato da numerosi collaboratori: il direttore della fotografia, l'operatore, lo scenografo ecc ecc. Ma quando arriva il momento del montaggio, il regista si ritrova con un solo interlocutore: il montatore.
  • Il montaggio è un lavoro che si svolge a porte chiuse, nell'ombra. È la relazione di tre “personaggi”: il regista, il montatore e il film che si sta costruendo. La natura di questa relazione è difficile da spiegare, è una relazione intima, segreta, che si sviluppa nel corso del tempo del lavoro.
  • Il montaggio è il ritorno alla realtà. Il regista ha a lungo portato dentro di sé il suo film, lo ha immaginato. Poi l'immaginario e il pensiero hanno trovato un supporto: le immagini impresse sulla pellicola e i suoni. Il montatore deve confrontare questa materia, con il film “sognato” dal regista. Il montatore è dunque colui che “rivela” ciò che portano i giornalieri. Il lavoro di montaggio è come una traversata, regista e montatore insieme, con i dubbi, le incertezze, ma alla fine c'è l'obbligo di approdare. È dunque l'ultima tappa e non si gioca che in due. Questo doppio parametro fa sì che le tensioni inerenti al lavoro di creazione siano particolarmente forti.
  • Analizzare il ruolo del montaggio, il ruolo del montatore, in questa avventura che è la nascita di un film, ci può portare ad una complessità di considerazioni e di implicazioni anche psicologiche molto vaste.
  • Il dibattito di questa sera non ha l'obiettivo di dare una risposta, ma di introdurre delle questioni, perché noi tutti sentiamo il bisogno di ridefinire, ridisegnare il nostro mestiere. È evidente che ognuno di noi pensa e riflette sul proprio lavoro, se ne parla tra amici, ecc. Ma questa sera, le analisi, le riflessioni, i sentimenti di ognuno si esprimeranno in un quadro collettivo.

Per questo dibattito, abbiamo voluto che ci fossero dei testimoni che non appartengono al nostro mondo professionale. Sono qui per ascoltare le nostre parole e riportare nel campo della loro pratica ciò che essi comprendono. Si tratta di Jacques Blociszewski, ricercatore, che avrà anche il ruolo di moderatore. Dominique Le Vaguerèse, psicanalista, e Gérard Mauger, sociologo.

Jacques Blociszewski

Il mio ruolo sarà modesto questa sera. Affronteremo un argomento che mi sembra complesso e appassionante e sul quale voi avrete, evidentemente molte cose da dire. Dunque svolgerò il ruolo dello sprovveduto, provando a chiedere precisazioni che ci dovranno aiutare nel dibattito. Per presentarmi, in poche parole: sono responsabile di ricerca in una società del settore culturale, ma è a titolo personale che sono stato contattato da Anita per intervenire questa sera. Nei testi che ho letto in preparazione a questo dibattito ho letto delle domande appassionanti, ho trovato ad esempio delle parole come ”a porte-chiuse”, “ombra”, “traversata”, “riscrittura di una storia”, “ritorno alla realtà”, “il primo spettatore”, “il testimone”, “il potere”, “la coppia”, “la frustrazione”, “dare un senso”, “aiutare le immagini”, i tre personaggi nella sala di montaggio: il regista, il montatore, e il film…

Ho tentato, partendo da queste informazioni, di redigere un elenco di domande molto informali. La relazione tra il regista e il montatore appare completamente centrale, certamente non esclusiva, ma molto importante. Forse potremmo partire da questa traccia, situare i vari personaggi che intervengono nel montaggio, quindi passare all'analisi della collaborazione per quello che riguarda la creazione di un film.

Gérard Mauger

Io sono il sociologo di turno. In quanto sociologo m'interesso un po' a tutto il mondo sociale in generale, e dunque non in modo particolare al cinema, non più di qualunque spettatore. Quindi che tipo d'interesse potrei avere per questo dibattito? Perché ho risposto all'invito di partecipare? I mondi dell'arte m'interessano. Sono universi professionali dotati di proprietà particolari che possono avere, a mio parere, un interesse particolare dal punto di vista sociologico. Quello che stimola la mia curiosità è soprattutto la questione della definizione dell'identità dell'artista. Gli universi artistici possono essere definiti dall'indefinizione del diritto d'ammissione. Che cos'è essere scrittore? Essere medico non comporta grossi problemi di identità professionale, bisogna avere la laurea e con la targa sulla porta si diventa medico, nessuno vi dirà niente. Diventare scrittore, pittore, musicista, è una cosa più complicata. I fenomeni di consacrazione, d'abilitazione sono, in effetti, complessi. Questi fenomeni m'interessano. Ma in realtà non è veramente il motivo del mio interesse per il montaggio. Mi sembra che questo mestiere “dell'ombra” o del “dietro le quinte” – per usare una parola del mondo dello spettacolo – ha molti legami ed omologie con il mestiere del sociologo, specie quando il mestiere del sociologo si avvicina all'etnografia. In fin dei conti, un sociologo o un etnologo non fanno altro che conservare delle immagini, guardare, osservare, prendere appunti, registrare e tornare nel loro ufficio con il cosiddetto “materiale”. Si potrebbe dire i “giornalieri” dell'etnografia. Dopo, bisogna montare. In un certo senso, bisogna montare e costruire quello che è stato raccolto per farne un testo. In questo processo, s'incontrano una serie di problemi che mi sembrano molto vicini ai problemi che si pongono i montatori o le montatrici, visto che si tratta di una professione anche molto al femminile. Bisogna costruire un racconto, un intrigo: intrigo nell'accezione romanzesca quando si tratta di finzione, o intrigo problematico, scientifico e/o politico. In realtà, si tratta di porre una domanda e di cercare una soluzione. Bisogna scegliere un filo che permette di costruire, in un modo o nell'altro, un racconto. Non c'è niente di semplice. Ecco uno dei motivi del mio interesse per il dibattito di stasera: l'omologia tra certi aspetti del mestiere di sociologo e certi aspetti che credo siano nel vostro mestiere.

Dominique Le Vaguerèse | psicanalista

Per quanto mi concerne, mi accontenterò di ascoltare ciò che si dice… tanto per cambiare… La psicanalisi e il cinema sono nati circa nello stesso periodo storico. Appartengo ad una generazione che si è nutrita ed è cresciuta con film politici e con film impregnati di teoria psicanalitica – si pensi ad Hitchcock, Antonioni, e molti altri. Quindi, forse, il dibattito di questa sera potrà darmi un'ulteriore punto di vista dei rapporti che esistono tra cinema, psicanalisi e politica.

Jacques Blociszewski | ricercatore

L'importante ora è ripartire dalla formulazione stessa del dibattito. Le parole hanno una loro importanza, più che mai: “Lo spazio del montaggio e il ruolo del montatore nell'elaborazione di un film“. Qualcuno desidera intervenire per lanciare il dibattito? Come nasce la collaborazione regista/montatore? Come si crea la “coppia”? Quali sono i limiti a questa collaborazione che si impongono fin dall'inizio del lavoro? Come ridurre questi limiti o evitarli o conviverci? Ad esempio come vengono chiamati a lavorare insieme un regista e un montatore?

Lise Beaulieu | montatrice

Direi che ci sono dei matrimoni di interesse e dei matrimoni d'amore. Ci fu un tempo in cui i registi sceglievano i loro montatori e i montatori i loro registi. Ma credo che la situazione attuale del lavoro renda questa libertà sempre più rara. Ci sono molti matrimoni di interesse, a volte non tanto lontani dalla violenza…

Vera Memmi | montatrice

A questo proposito, vorrei farvi il mio esempio sul matrimonio di interesse. In questo tipo di matrimonio è Il Paterfamilias, cioè il produttore, che fa incontrare montatore/montatrice e regista. Si possono, in questo modo, creare coppie anche molto strane… Nel matrimonio d'amore è diverso perché l'incontro è diverso. Un matrimonio d'amore spesso significa un rapporto professionale che dura nel tempo. Cosa che non succede sempre nei matrimoni di interesse. Detto ciò, a volte i matrimoni d'interesse diventano d'amore.

Chantal Piquet | montatrice

Una modalità piuttosto recente nella scelta dei montatori è il “casting”. Succede di essere convocati ad un casting di montatori ed essere ricevuti da persone che non conoscono né i film che abbiamo montato, né le persone con cui abbiamo lavorato, né le produzioni con le quali abbiamo collaborato. E non sempre s'incontra il regista… Questa pratica esiste da qualche anno. Non la si conosceva assolutamente prima.

Jacques Blociszewski

Che cosa succedeva prima?

Chantal Piquet | montatrice

Venivamo chiamati direttamente. Un regista s'informava sul montatore, magari vedeva i film che aveva montato, si confrontava con qualche suo amico regista e gli diceva: “Forse sarebbe possibile lavorare con taluno o talaltro”. Non ci veniva richiesto un Curriculum. Ci si incontrava, ci si conosceva, si discuteva semplicemente, e se si trovava un'intesa….c'era la fiducia, non c'erano esami di passaggio.

Camille Cotte | montatrice

Trovo che ci sia un malinteso, in questi ultimi tempi. Ci sono molti registi e montatori che non sanno di potersi scegliere ed incontrare. Ho notato che ci sono dei produttori che propongono un montatore senza chiedere il parere del regista, e dei registi che non pensano nemmeno di poter dare il loro parere, non sapendo bene cosa fa un montatore. Non è per forza una volontà della produzione di voler imporre un montatore con un curriculum cosi o colà, è anche perché siamo considerati semplicemente dei tecnici e quindi hop se ne sceglie uno, più o meno a caso, e viene presentato al regista. La produzione pensa che sia di competenza sua ed è abbastanza triste perché c'è una scarsa conoscenza dell'importanza reale dell'incontro tra due persone che stanno per condividere un periodo di lavoro lungo. Credo che per dar vita ad un rapporto di collaborazione, si debba innanzitutto condividere l'interesse per la sceneggiatura. Poi c'è l'incontro, la scelta, anche umana, che due persone fanno l'una dell'altra.

Jacques Blociszewski

Siamo quindi al di là della tecnica?

Camille Cotte | montatrice

Siamo al di là. E' una questione di relazioni. Io trovo che il montaggio è saper ascoltare l'altro, sopportarlo, capirlo, senza dover passare attraverso un rapporto di seduzione, anche se, ovviamente, esiste tra due persone. E' essere capace di appropriarsi di una storia senza volerla fagocitare. E' complesso, ma sono convinta che è nostro compito, di montatori e registi, insistere perché si tenga sempre presente l'importanza di quest'incontro. E' fondamentale non stancarsi di spiegare ai produttori, e a tutti coloro che lavorano nel cinema, la cruciale importanza di questa relazione, estremamente creativa, tra il montatore e il regista.

Jamileh Nedaï | montatrice

Al contrario dello scrittore, che verifica nelle parole scritte il valore del suo soggetto, il montatore, assieme al regista, cercano di capire e di “ritrovare” la storia che è stata scritta, nelle immagini. La qualità di questo lavoro, che si fa in sala di montaggio, dipende dalla coppia regista / montatore, dalla qualità di questa unione creativa. Oggi c'è il mondo del denaro, che interviene sempre di più e che influenza sempre di più l'incontro regista/montatore. Nel mondo del documentario, in particolare, per via dell'evolversi della tecnologia, dunque con la possibilità di andare più veloci, si vive lo stress, la mancanza di tempo di riflessione. Oggi ci viene richiesto di andare sempre più veloci, di diventare tecnici puri, riassumendo la nostra professionalità ad una buona conoscenza dei software. Se conoscete Final Cut pro, siete montatori!

Jacques Blociszewski

Le parole “sogno” e “realtà” tornano spesso…

Dominique Barbier | montatrice

Sono montatrice, soprattutto di documentari. Io penso che la relazione tra regista e montatore sia molto complessa da gestire. Parlerei forse di maieutica nella sua accezione socratica di far partorire le idee. Il montaggio m'interessa in questo senso, perché c'è un materiale, una materia grezza, spesso in grande quantità, e da questo bisogna provare a trarre davvero l'essenziale, il midollo spinale in un certo senso. Bisogna fare una sintesi con il regista e riuscire a costruire il film che il regista aveva in mente. In quanto montatori, siamo, in effetti, i primi spettatori. Ci spetta trovare – è l'aspetto creativo del montaggio – il cammino che il regista forse non aveva previsto. C'è una forma di riscrittura durante il montaggio. E' una relazione complessa da gestire, bisogna essere umili. A volte si ha la sensazione di portare molte cose nella costruzione del film, nella struttura e nella scrittura. Però bisogna mettersi un po' da parte , bisogna stare attenti a non urtare l'ego del regista.

Anita Perez | montatrice

Lavoro nel documentario dov'è non c'è sceneggiatura scritta e dov'è tutto succede al montaggio. E' appassionante e sconvolgente nello stesso tempo. Ci sono momenti di dubbi, momenti d'incertezze enormi, quando non si sa se il film vivrà, se troverà il suo movimento. Ci sono delle situazioni estreme. Ho montato ultimamente un film con 120 ore di rushes. 120 ore per fare un film, onestamente, è molto difficile, perché forse c'è la quantità, ma anche una certa indigenza in questa quantità di giornalieri. Quando uno si confronta con situazioni di questo tipo, ci sono momenti di profonda depressione perché non si sa, malgrado ore e ore di lavoro, se il film c'è. E il film bisogna “trovarlo”. Bisogna trovare, direi lungo questi chilometri di girato, il necessario per fare una storia, trovare un senso. A volte uno lo trova subito, ma non si può prevedere nulla. Tutto dipende dalla relazione e dallo scambio che si produce nella sala di montaggio. I “giornalieri” non sono il prodotto del caso, ma di un progetto pensato, scritto, realizzato da un autore che ha immaginato e “portato” il film dentro di sé. Per me il rapporto con il regista è molto chiaro. Non mi sono mai sentita regista, perché non si tratta del mio film. Il montaggio è una relazione d'accompagnamento e una relazione d'appropriazione. Il montatore si appropria del desiderio dell'altro, del desiderio del regista, fino a farlo diventare il proprio stesso desiderio. Trovo che la posizione, e in qualche modo il ruolo del montatore, è quello di entrare nel desiderio di creazione di un altro. In questo processo il montatore si realizza in quanto creatore. La difficoltà, l'ambiguità possono sorgere alla fine del percorso, quando si arriva al film finito. Il nostro lavoro è finito. E la relazione di coinvolgimento nello stesso desiderio, nello stesso progetto creativo con il regista, è arrivata a compimento. Questo momento per me, almeno, corrisponde anche ad un lutto, a volte difficile da portare.

Gérard Mauger

Sto per invadere probabilmente il territorio del mio collega psicanalista, ma c'è una cosa che mi stupisce in questo dibattito : ed è l'uso, che sembra del tutto normale, di metafore familiali. Si è parlato di “matrimoni” – d'amore o di interesse – di “incontri”, di “interessi comuni”, di affinità elettive ed addirittura delle agenzie di casting non così distanti dalle agenzie matrimoniali. Queste operazioni di reclutamento – e il matrimonio è una come le altre – non si svolgono mai per caso. Si possono evidenziare delle regole non scritte, delle modalità, che creano le opportunità o la mancanza d'opportunità d'incontri : la gente non s'incontra socialmente per caso. La trasformazione del mercato del lavoro, di cui si sta discutendo, mi sembra omologa alla « deregulation » del mercato matrimoniale. Mi sembra che si potrebbe analizzare questo fenomeno come una razionalizzazione crescente del mercato del lavoro : prima le relazioni di lavoro nascevano in modo quasi casuale, dovute al caso degli incontri, grazie al “capitale sociale” specifico accumulato con la frequentazione dell'ambiente del cinema, alla “fama” insomma, e dove gli incontri obbligati venivano vissuti come incontri elettivi. Oggi gli incontri sono razionalizzati attraverso strumenti d'”obiettività” come il Curriculum Vitae. Cosi funzionano anche le agenzie matrimoniali. Definiscono il profilo delle persone che possono « andare bene assieme ». E' la prima cosa che volevo dire. La seconda è un invito a seguire la metafora: dopo l'incontro, c'è la procreazione, la creazione. Da questa coppia che si forma nasce un film. Il mio film, il tuo, il suo, forse il nostro film. Sono stupito nel constatare come, la metafora della famiglia sia utilizzata da tutti. Ho l'impressione che vada da sé. Non so bene se descrive quello che succede, ma in ogni caso ognuno la usa per conto suo come se fosse naturale. Penso che bisogna prendere sul serio le metafore. Se funzionano, è perché c'è un motivo. L'attività artistica soffre ad essere troppo razionalizzata, mal sopporta di “pensarsi” un'attività razionalizzata; giustamente, perché un'attività artistica è sempre pervasa da una certa dimensione di mistero. E dunque tra chi partecipa all'attività artistica la “visione” delle relazioni è in qualche modo ammantata di un incantamento. Le pratiche artistiche devono essere vissute in questo “registro” per poter funzionare. In altri termini, quando la pratica artistica si vive in termini meccanici e razionali, non è più quello che dovrebbe essere. Penso che faccia parte della stessa natura dei mestieri artistici vivere questi mestieri in una specie di aureola metaforica che ha sempre a che fare con gli affetti, il desiderio ecc.

Luc Forveille | montatore

Vorrei intervenire a proposito di questa storia della metafora della famiglia, forse perché sono un rappresentante maschile della professione del montaggio. Io penso che non si tratti di metafore della famiglia, ma piuttosto di metafore di coppie, d'amore, di desiderio ed io stranamente non aderisco assolutamente a questa idea, sia nel mio rapporto con il film, sia nel mio rapporto con il montaggio. Ho piuttosto l'impressione di incontrarmi con qualcuno attorno ad un progetto e per un progetto. I rapporti con il regista o la regista sono elementi con cui, in ogni caso, bisogna convivere, ma il motivo fondamentale dell'incontro è il film, ed è intorno al film. Non sò se è una visione maschile delle cose, ma mi ha un po' stupito, la visione del montaggio che è stata espressa in questo dibattito. Come se l'essenziale del lavoro di montaggio fosse il rapporto con il/la regista. Per me l'essenziale del lavoro è il rapporto con il film. Per tornare alla metafora della famiglia, avrei voglia di dire che c'è prima un figlio da fare e poi una coppia da gestire. In quest'ordine.

Sylvain Roumette | regista

Credo che sia il film a fare da tramite tra regista e montatore. La prova migliore è che durante il montaggio, qualunque sia il tipo di rapporto o di complicità che pre-esistono, si tende progressivamente a far prevalere il rapporto con l'oggetto film, l'oggetto che bisogna costruire. Tornando a quello che è stato detto prima su come si svolge l'incontro o come vengono fatte le scelte tra il montatore e il regista, credo che sia un argomento molto problematico. E' un incontro difficile che crea almeno per il regista grandi apprensioni, soprattutto quando si lavora con un nuovo collaboratore al montaggio. Non è una cosa semplice perché si tratta di condividere, di spartire con un'altra persona, chiunque esso sia, un desiderio che è il desiderio del film, di un oggetto ancora immaginario o immagianato. Il problema si pone nello stesso modo con la troupe. Quello che mi ha sempre sorpreso e gratificato in questo mestiere è lavorare con persone che si è scelto e dalle quali si è stati scelti. E' uno dei rari mestieri dove si può lavorare così, almeno quand'è ancora possibile. Sono sempre stato stupito nel vedere fino a che punto l'investimento, l'impegno a tutti i livelli – artistico, professionale, di tempo, di energia – può essere così forte, nel desiderio di realizzare quest'opera che è il film. C'è anche il mistero di una relazione che si crea, o non si crea, con altre persone. E' probabilmente legato alla passione e alla convinzione che deve avere chi partecipa a questo processo creativo. Vorrei aggiungere che nel momento in cui si arriva alla fase del montaggio, stranamente il montatore o la montatrice è molto più sicuro, più solido del regista. Questo fatto mi ha sempre stupito. Perché il regista, a questo punto, è in presenza di due film : il film che ha immaginato e il film reale che però non esiste ancora, ma è semplicemente lì in divenire. Tuttavia, si sà che si può montare solo quello che è stato girato. Non si può fare diversamente. E in questa sorta di scambio, che si stabilisce al montaggio, il montatore o la montatrice sono molto più solidi del regista.

Jacques Blociszewski

Qual è la vostra ansia da regista quando si arriva al montaggio?

Sylvain Roumette | regista

L'ansia è di sapere se si potrà fare qualcosa che assomiglierà, alla fine, al film immaginato. C'è tutto quello che serve? Si riuscirà a trovare le chiavi d'organizzazione di questo materiale affinché le cose prendano forma ?

Jacques Blociszewski

Quello che cercate nel montatore, è questo senso di organizzazione?

Sylvain Roumette | regista

Assolutamente. Ancora una volta quello che stupisce è che il montatore o la montatrice sa meglio del regista cosa bisogna andare a cercare. E' la storia dello scultore e del blocco di marmo. Bisogna sapere che c'è un cavallo dentro al blocco di marmo, e il montatore, spesso, lo sa meglio e più facilmente del regista stesso. Sa come fare uscire il cavallo.

Anita Perez

Io credo che quello che dice Sylvain è giusto. Il regista ha “portato” con sé il film per mesi, a volte per anni. L'ha sognato, e noi montatori, arriviamo di fronte ai “giornalieri” con uno sguardo nuovo e senza pregiudizi sul materiale. Quindi è logico che si possa più facilmente vedere cosa il film sarà o potrebbe essere. I rushes sono carichi di quello che il regista ha portato. E dunque nello scambio, nel lavoro con il regista, è più facile per il montatore trovare il movimento del film, le sue articolazioni. E' questo che intendo quando parlo di “negoziazione”. E' un arricchimento costante, questo continuo andare avanti e indietro nella riflessione alla ricerca del senso. E alla fine, quando mi ritrovo davanti al film compiuto con la stessa emozione che ho provato durante la visione dei giornalieri, significa che ho ritrovato la stessa emozione che mi ha dato la voglia di fare questo lavoro sul film.

Jamileh Nedaï | montatrice

E' stato detto che il regista arriva con un film sognato e con un materiale dentro al quale non è ancora sicuro ci sia il suo sogno. Quello che mi interessa, quando lavoro, è scoprire il suo sogno in quelle immagini. Per questo motivo non userei il termine contrattazione , parlerei piuttosto di comprensione. Provare a capire, cercare di scoprire il suo sogno. Nel momento in cui si riesce, si prova un piacere enorme. Per me non è una storia d'amore, assolutamente no, non è un amore reciproco, è vivere un sogno che già è stato sognato dalla troupe sul set con il regista, e poi in due, nella sala di montaggio si sogna quel sogno.

Jacques Blociszewski

Abbiamo parlato di sogno, realtà, passaggio dal sogno alla realtà, materializzazione del sogno. Come fanno, il regista e il montatore, ad arrivare ad un'ora e mezzo di film, partendo da 120 ore di materiale girato? Suppongo che ci siano scelte molto difficili… Bisogna scegliere ad ogni tappa, no?

Dominique Gallieni | montatrice

Ecco la parola importante, scelta. Dall'inizio alla fine si fanno scelte. Passiamo tutto il nostro tempo a scegliere. E' per questo che il montatore ha un rapporto con tutta la realizzazione del film, ovvero con gli attori, la luce, il suono.. E' la scelta e l'organizzazione di tutti questi elementi che sviluppano i sentimenti. Inoltre significa essere costretti a tagliare. Con i connessi piaceri e dolori…

Jacques Blociszewski

E il compromesso ?

Dominique Gallieni | montatrice

Può esistere però in ogni caso bisogna scegliere.

Marie Castro | montatrice

Se non c'è compromesso, non c'è il film. E' una semplice osservazione, ho lavorato con un regista e si parlava appunto di scelte e del problema delle scelte, abbiamo avuto delle discussioni lunghissime e mi ricordo che per me scegliere era vivere, e per lui scegliere era morire. La nozione di scelta è qualcosa di molto particolare. L'importanza della scelta è una cosa molto impressionante. Perché qua? Perché questo? Perché quest'inquadratura? E' nella scelta che si trova, in effetti, il film, il soggetto, la storia. Bisogna sempre fare la domanda : cosa stiamo raccontando ? Cosa bisogna raccontare? Cosa si vuole raccontare con questa storia ? A volte diventa soggettivo. Non sempre si è d'accordo sulle scelte, tra regista e montatore. Bisogna convincere, discutere con l'altro. E' la discussione sul film, e sulle ragioni per tale o tal'altra scelta, che permette di mandare avanti il film.

Jacques Blociszewski

Sono i registi che hanno la sensazione di dovere rinunciare controvoglia ad alcune scene, ad alcune inquadrature ? Scegliere, è sempre rinunciare a qualcosa…

Sylvain Roumette | regista

Questo succede continuamente, ovviamente. Però non mi disturba molto, perché accetto facilmente di rinunciare, di scegliere, di tagliare. Non è la cosa che mi costa di più. Mi viene in mente una frase di Baudelaire, che diceva che tra le qualità necessarie per essere poeti, l'immaginazione e lo spirito critico, la più importante è lo spirito critico. E credo che la qualità essenziale del montatore è lo spirito critico. Dei due, nella famosa coppia di cui si parla da prima, se c'è qualcuno che è delegato allo spirito critico, è il montatore. E' normale, è la posizione che ha nella catena. Credo che la fiducia che si può avere nel montatore sta nella fiducia per la sua funzione critica.

Jacques Blociszewski

C'è una distanza, un distacco dal film che il regista non possiede ?

Sylvain Roumette | regista

Si, da una parte si, è congenito nel ruolo. Ma è meglio se il montatore ha una funzione critica sicura.

Claude Guez | montatore

Quello che montiamo è sempre il progetto di un altro, non è mai il nostro. Quando si comincia con questo mestiere, si crede di partecipare alla creazione. Ma la “creazione” arriva, nella sala di montaggio, già quasi formata. Siamo qua solo per farla funzionare, perché sia esteticamente giusta, però non è la nostra creazione. Uno può credere di partecipare alla creazione finché non si accorge, alla fine di lavorare per altri, di mettersi a disposizione di altri. Mi piace il termine “parto”. Aiutiamo, siamo come delle levatrici, aiutiamo il bebé ad uscire. Facciamo in modo che non sia maltrattato, che stia bene, che non abbia dei bernoccoli, dei colpi, e che il parto si svolga al meglio. Non facciamo nient'altro. Credere che facciamo qualcosa di più è usurpare il ruolo del regista. Credere che fabbrichiamo qualcosa, è pensare di essere un po' regista, e il regista stesso ogni tanto ci lascia credere cosi, fosse soltanto per motivare il suo montatore o la sua montatrice. Bisogna essere umili, il montatore o la montatrice è qualcuno che sta qua con tutta la sua sensibilità, la sua intelligenza e il suo talento per aiutare il regista a costruire il suo progetto.

Sylvain Roumette | regista

Io non sono totalmente d'accordo. Credo che la metafora del parto non è del tutto esatta perché il parto consiste nel fare uscire in effetti un bebé che esiste già. Mentre nel nostro caso, il bebé non è veramente ancora formato. La prova è che tutti sanno che con lo stesso materiale si possono fare dei film totalmente diversi. Ne abbiamo fatto tutti l'esperienza.

Frédéric Goldbrown | regista

Prima il giovane montatore diceva « bisogna essere umili, non facciamo altro che mettere in forma la creazione ». Io trovo che nel cinema dare “forma” è una questione essenziale, non è una questione da poco. Un film esiste appunto attraverso la sua forma. Sono contento che abbiamo riportato la questione del progetto al centro della relazione tra montatore e regista. So che quando propongo ad un montatore o ad una montatrice di lavorare con me, è sempre perché da una parte si interessa al progetto, e allo stesso tempo perché so che lui o lei avrà un punto di vista diverso dal mio e porterà qualcosa di nuovo. Quindi ci sarà un confronto e credo che sia una fonte di ricchezza. Non parlerei di compromessi perché sono sempre rapporti di scambio, di desideri e d'intenzioni. Sono più i rapporti di reciproca fiducia che si instaurano nel tempo, che le storie di subalternità. Personalmente ho lavorato con delle montatrici e non con dei montatori, non ho fatto molti film, ma ogni volta ho avuto l'impressione che le montatrici mi abbiano fatto scoprire qualcosa di nuovo nel lavoro.

Gilles Dinnematin | regista e montatore

Sono un po' atipico in questa sala perché ho iniziato con la regia e oggi sono un « giovane » montatore e parallelamente continuo ad essere regista. Mi ero promesso di non parlare ma sto per farlo perché non sono per niente d'accordo con quello che sento. Io non ho mai avuto la scelta : c'è un film, uno solo, e bisogna farlo uscire. Non si fanno 50 film con 120 ore di giornalieri, si fa un film. Credo che il mio ruolo di montatore non è quello di levatrice, ma di analista, a volte si potrebbe dire di terapeuta. E' anche un ruolo politico. Abbiamo tutti rifiutato di montare delle immagini credo, in accordo o meno col regista. Ed ogni volta che ho avuto un problema di etica o politico con un regista a proposito di immagini che voleva montare, ogni volta la discussione portava ad un lavoro analitico col regista. Li si ponevano veramente i problemi. In fin dei conti, quando andava bene era perché eravamo riusciti ad essere in ascolto l'uno dall'altro e che l'altro si sentiva soddisfatto di quest'ascolto e aveva compiuto la sua analisi. Però in questo lavoro, nel lavoro di terapia, se uno accetta questa impostazione, c'è qualcosa che esiste che si chiama ego e che è terribilmente ingombrante. Tra l'altro i terapeuti, gli analisti, lo sanno perfettamente è per questo che fanno un lavoro di analisi su se stessi prima di diventare terapeuti, per uscire dall'ego. Il nostro problema in quanto montatori è che durante il nostro lavoro ci ritroviamo nella posizione dell'analista senza avere ucciso il nostro ego. Bisognerebbe pensare a quest'aspetto nella formazione dei montatori e delle montatrici.

Sylvain Roumette | regista

E' stato detto che il montatore è nella posizione di colui che “porta” un po' di etica. Veramente io spero che l'etica sia presente prima e che non sia il montatore da solo, incaricato di controllare la qualità etica di un lavoro. Può capitare che ci sia un conflitto tra un regista ed un montatore perché credo che il regista sia maggiormente disposto a fare delle concessioni d'ordine etico. Non so se questo è dovuto al suo ego o alla preoccupazione di arrivare fino in fondo al percorso oppure allo sguardo che ha sul suo lavoro. Ci possono essere dei conflitti perché il montatore ha un'altra posizione. Abbiamo detto che il montatore è il primo spettatore, il primo sguardo, io lo percepisco spesso come l'ambasciatore del pubblico da tutti i punti di vista, compreso quello della necessità della chiarezza e della comprensione. Per rimanere sul terreno analitico, il montatore è un po' il super-io.

Frédéric Goldbrown | regista

Io penso che non è sempre giusto dire che il montatore è l'unico a portare l'etica nella sala di montaggio. Anche il regista ha, evidentemente, un'etica. Anzi, in alcuni casi il regista può essere molto coinvolto con le persone, le situazioni che ha ripreso, e sia, appunto, “eticamente preoccupato”, e può succedere che metta in moto un atteggiamento d'auto-censura ed è in questi casi che il montatore può dire “bisogna andare avanti in questa direzione”. Il momento del montaggio è davvero uno scambio. E' una relazione che si stabilisce, è un lavoro condiviso. Non è che uno dei due protagonisti di questa relazione sia il custode della ragione.

Gérard Mauger | sociologo

A questo punto, bisognerebbe provare a ricostruire il repertorio delle diverse modalità di relazione possibili, che si traducono in forme d'interazioni particolari tra un/una montatore/montatrice e un/una regista. Mi sembra verosimile che tutti i tipi di relazione, siano immaginabili. Si possono immaginare delle forme di cooperazione tra pari, delle interazioni relativamente egualitarie, e forse, si possono immaginare anche diverse forme di rapporti di dominio carismatico. Oppure ancora delle forme di dominio burocratico, “è cosi e non altrimenti e poi se non sei contento fuori”, o “non abbiamo il tempo di discutere, quindi prego, fate quello che vi dico”. Ecco una relazione burocraticamente autoritaria, arbitraria. Immagino che ognuno di queste forme di relazione esista: bisognerebbe costruire un repertorio di queste forme. Inoltre, sarebbe utile studiare anche le modalità, le condizioni, in cui si instaura un accordo in rapporto alle scelte che bisogna pure fare. Le condizioni e le possibilità dell'accordo rinviano ai principi impliciti che dettano le scelte dell'uno e dell'altro, cioè la rappresentazione che ciascuno ha, che ciascuno si fa, di quello, che si sta facendo, ma che non è ancora fatto. Se fosse già fatto, sarebbe già finito. Quindi ognuno ha una rappresentazione che è essa stessa, in qualche modo determinata dai propri principi di visione: da questo punto di vista la metafora del matrimonio, di cui si parlava prima è, secondo me è pertinente. Le affinità elettive fanno si che sia implicito e più facile trovare un accordo su un certo numero di soggetti, di temi, di gusti, di giudizi, di scelte. Questa questione delle modalità dell'accordo e della relazione, mi sembra molto interessante perché rinvia a quello che detta le scelte degli uni e degli altri, cioè alle rappresentazioni che ognuno si fa di quello che il film deve essere o della visione che si ha di quello che il film potrebbe essere. Qua di nuovo bisognerebbe analizzare il repertorio delle diverse combinazioni possibili: accettare lo sguardo altrui, o rifiutarlo, cercare di fondersi nello sguardo dell'altro e rinunciare al proprio, modificare un suo sguardo tenendo conto dello sguardo altrui, etc. Ho rilevato anche l'intervento di questo terzo soggetto nella relazione: “c'è il film”. Il film ha in effetti un proprio ruolo in questa inter-azione, nella misura in cui il film è “il film che si sta facendo”, è l'insieme delle scelte che sono già state fatte. Il peso delle scelte effettuate prefigura l'aspetto che prenderà il film, tranne se si fa saltare tutto in aria e se si ricomincia da capo. Quindi c'è una specie di logica immanente al film che si sta facendo che è il risultato delle scelte già fatte, cioè di questi accordi che sono già stati compiuti. Di conseguenza, l'inter-azione non si costruisce soltanto tra montatore e regista con le loro pre-disposizioni, i loro interessi, i loro gusti, ma anche con questo terzo “soggetto” che prende un' importanza crescente man mano che il lavoro di montaggio prosegue. La questione della fine del film che è stata evocata mi sembra molto interessante: un film è virtualmente un prodotto interminabile, ma c'è anche, per fortuna, un momento in cui bisogna che sia finito. E' il momento in cui si impongono tutta quella serie di scelte che sono state. Si può trovare il risultato soddisfacente o meno, ma in ogni caso il film è finito, perché sarebbe troppo difficile tornare indietro.

Thierry Derocles | montatore

Io vorrei tornare un po' sui termini di sogno e desiderio. Questo dibattito è interessante perché sto imparando delle cose. Ad esempio, non mi era mai venuto in mente di “non” ascoltare un regista. Anzi, ovviamente, lo ascolto sempre. Lo ascolto e ho tutto il tempo per ascoltarlo, – fino a quando mi sarà concesso questo tempo, ma questa è un'altra questione. Torniamo al “desiderio” e al sogno. Io non sogno per niente, quando entro nella sala di montaggio, e non ho desideri. Anzi, ho molto piacere. Forse mi direte che non ci può essere piacere senza desiderio. Ma, per me, c'è piacere quando le cose si muovono e quando raggiungono, appunto, un esito. Io sono uno che non ha bisogno di appropriarsi del film, ma che sà che vi ha partecipato. Il resto è un dialogo, diciamo, interiore, uno può dire a se stesso di aver dato quel contributo o quell'altro, ma anche tanti altri hanno dato il loro apporto. Un film è una creazione, questo è il punto di partenza e per questo mi piace questo lavoro. Perché si crea qualcosa o, in tutti i casi si partecipa alla creazione di qualcosa. Quando questa “cosa” è là, quando esiste, quando è riuscita, quando si può parlare di un opera artistica, in quel momento ho un intenso piacere che dura a lungo. Quando rivedo certi film ai quali ho partecipato, ritrovo sempre grande soddisfazione e diciamo che esisto attraverso questa opera perché me ne sento parte. Sapere esattamente il grado di appartenenza è per me del tutto secondario. Il vero momento di gioia è sapere che il film esiste e che ci sono un po' dentro, mio malgrado.

Marie Castro | montatrice

Quello che dice Thierry è senza dubbio vero per lui. Ma io penso che ciascuno deve esercitare il lavoro a modo suo, con il proprio carattere e con il proprio modo di agire e non sono queste diversità che determinano la qualità o meno di ciascuno. Penso che ognuno ha la propria maniera di vedere questo lavoro e penso che sia molto importante rispettare la diversità di ognuno.

Sylvain Roumette | regista

Credo che sia interessante farsi una domanda. Esiste, nei diversi film, una “firma” del montatore o della montatrice, allo stesso modo della firma del o della regista ? E' una domanda importante credo. Il montatore può avere questa flessibilità che gli permette di piegarsi effettivamente alla ragione, alle necessità espressive, di ogni film in modo tale da “sparire” nel rapporto con questa necessità? Oppure nei diversi film, che hanno ognuno delle diverse necessità espressive, permangono certi tratti stilistici, delle piccole cose, che permettono di riconoscere la firma di un montatore?

Gérard Mauger | sociologo

La questione della “firma” del montatore, è molto interessante e merita una riflessione. Possiamo provare a metterla in rapporto con le diverse situazioni, i diversi generi di film, il tempo disponibile ecc, in cui il montatore agisce. E' possibile, attraverso la diversità dei generi, riconoscere la “firma” di un montatore ? Come si riconosce? Vorrei fare un paragone con i rapporti che si stabiliscono tra ballerini e coreografi nella danza contemporanea. Se si riconosce, nel mondo della danza contemporanea, lo stile di un coreografo, è altrettanto possibile identificare lo stile proprio di un ballerino? In un universo che non implica una relazione di comando tra coreografo e ballerini, con una scenografia e un coreografia estremamente precise, ma che, tuttavia, lascia sempre un margine d'interpretazione al ballerino o alla ballerina, il quale ha dovuto, comunque, interiorizzare la gestualità specifica del coreografo per il quale lavora. Per il ballerino, la qualità particolare, individuale, è la sua plasticità corporale, la sua capacità di ballare per qualsiasi coreografo ? Il savoir-faire del ballerino sta nella sua capacità di adattarsi a tutte i diversi modi di essere dei diversi coreografi – potete tradurre facilmente, sostituendo coreografo con regista e ballerino con montatore – oppure sta nel portare per ogni coreografo le proprie qualità ? Il corpo di un ballerino non è mai totalmente interscambiabile con il corpo di un altro. Si potrebbe dire che il suo corpo è la sua “firma”, la sua “cifra” personale, la sua morfologia, il suo modo di essere.

In questa prospettiva, per capire cos'è la “firma” del montatore, bisognerebbe capire qual è per il montatore l'equivalente della specificità corporale del ballerino e sapere come identificarlo.

Sylvain Roumette | regista

Possiamo pensare a delle questioni di ritmo.

Lise Beaulieu | montatore

Vorrei dire che qua stasera parliamo di cose molte ideali, parliamo di film, con dei registi e dei montatori che montano dei film formidabili, che si pongono delle domande formidabili, ma oggi sono le rete televisive che dettano sempre di più le regole del montaggio dei film. Quindi, questo relativizza l'apporto ideale del montatore… Trovo che in questo momento il montaggio stia sparendo e che i registi stessi stiano sparendo. Non so chi è sparito per primo, non so se siano stati i registi e di conseguenza i montatori, o se sono le reti televisive che hanno ucciso i registi. In ogni caso, quello che vedo in questo momento, sopratutto nel documentario, è che tutto è formattato e diretto dai broadcasters. Quindi tutte queste discussioni ideali sulla sala di montaggio non hanno spesso più senso perché c'è la legge della rete che ha un pubblico da nutrire. Quindi ho l'impressione che stasera si parli di una situazione ideale, ma nei fatti stiamo veramente andando contro un muro. Ora sono le reti televisive che fanno il montaggio, che fanno il montaggio di tutta la loro merda che passa tutto il giorno in tv e che questa bella coppia ideale che discute, che litiga e tutto quanto, è molto bella ma esiste ormai raramente.

Anita Perezo | montatrice

Esiste ancora un po'… Prima Thierry diceva che il montaggio si colloca alle fine del processo di costruzione del film. E' l'ultima fase. La sala di montaggio ospita questo scambio a porte chiuse che si svolge tra regista, montatore e film. E' un luogo dove il dialogo, lo scambio di cui abbiamo parlato stasera esistono. Bisogna che questo vada avanti perché è l'ultimo traguardo del film, del senso del film. E' un luogo di resistenza dove il montatore e il regista devono affrontare le pressioni sempre più asfissianti dei finanziatori del film. La sala di montaggio è il luogo dove si esercitano tutte queste pressioni. Gli strumenti sono cambiati, l'uso del computer permette di fare dei cambiamenti in qualche secondo e alla fine questi strumenti permettono ai broadcasters di imporre i loro desideri, il loro pensieri. La resistenza è più difficile. Queste intrusioni intempestive le viviamo in prima persona e purtroppo la coppia regista/montatore è molto isolata perché nessuno ha parlato della grande assenza dei produttori. Spesso c'è il vuoto davanti a noi perché i produttori dovrebbero essere con noi, difendere il film, sostenerlo, portarlo fino in fondo, e invece…. E' vero che tutto quello di cui abbiamo discusso è forse ideale, ma dovrebbe nutrire e continuare a nutrire questa possibilità che la sala di montaggio rimanga un polo di resistenza, di resistenza del film e del cinema, semplicemente. E' vero che sono delle condizioni ideali, ma io non le ho ancora seppellite. Spero che non saranno seppellite immediatamente.

Sylvain Roumette | regista

Penso che bisogna insistere sull'importanza della solidarietà tra regista e montatore. Abbiamo fatto finta di credere che era nell'incontro a due tra regista e montatore che si conclude il film. Non è vero. C'è molta gente che passa nelle sale di montaggio. Ci passano tutti i partner della produzione, i produttori per primi e alla fine i broadcasters che hanno il vero potere. E' ovvio che il produttore si è visto ridimensionare completamente il suo ruolo. Oggi, possiamo dire che non ci sono quasi più i produttori che fanno la loro parte e che il regista è stato il primo ad essere “cacciato” dal proprio ruolo, prima ancora del montatore. Abbiamo ancora bisogna dei montatori, ma dei registi già facciamo a meno. E nel migliore dei casi, il regista è diventato una sorta di fabbro, più o meno ribelle, ma comunque un fabbro al quale si spiega cosa deve fare e al quale, durante il montaggio, si dà una lista di suggerimenti sui tagli da fare, addirittura con tanto di time-code. Succede molto spesso.

Anita Perezo | montatrice

Tra poco ci salutiamo, forse i nostri ospiti-testimoni hanno voglia di aggiungere qualcos'altro?

Gérard Mauger | sociologo

Una parola per dire che ho trovato questo dibattito molto interessante, ma non è quello che mi aspettavo. Il titolo era “lo spazio del montaggio, il ruolo del montatore”. L'avevo interpretato come l'analisi del rapporto tra le “retribuzioni” del montatore – retribuzioni finanziarie e simboliche – e il suo contributo specifico. Abbiamo parlato molto del contributo del montatore – questo è stato il tema principale del dibattito stasera – ma questo contributo non è stato messo in rapporto con la questione delle retribuzioni: la questione della giustizia o della giustezza di queste retribuzioni in rapporto al contributo specifico del montatore, non è mai stata sollevata.

Anita Perezo | montatrice

Le prospettive del montaggio sono davanti a noi! Questo dibattito è stata una prima sequenza. E' stato un primo scambio molto ricco, bisognerebbe ancora approfondire la nostra riflessione.
Buona sera a tutti e grazie.

tradotto da JEAN DENIS LE DINAHET